Into the Wild
Le storie arrivano in tutte le forme. Quelle delle donne spesso sono tonde (cerchi, chiusure, ritorni a casa, ricomposizioni - oppure corsi e ricorsi irreconciliabili), agli uomini (variante: lui & lei contro il mondo) capita più di frequente la linea dritta. Come un proiettile, un treno, o un’autostrada che corre in mezzo al deserto. L’esplorazione, l’avventura, la conquista, la vendetta, la fuga: alla fine della strada il Messico non c’è quasi mai, ma - dice il saggio - non conta la meta, bensì il viaggio. E poi c’è Thelma & Louise: sceneggiatura di una esordiente (Callie Khouri, che ai primordi del progetto avrebbe dovuto anche dirigere, con stile documentaristico e basso budget) e regia di uno (Ridley Scott) che nel 1991 si porta ancora addosso l’etichetta di “pubblicitario” come fosse un’infamia, nonostante l’immortale tripletta I duellanti, Alien e Blade Runner. Mettono due amiche ai posti di guida del canonicamente maschile buddy movie (ben prima che a Hollywood iniziassero a chiamare la pratica gender swap) e subito sembra una cosa nuova, inaspettata. In realtà, cinematograficamente parlando, di inedito non c’è poi moltissimo, i generi qui si inseguono tra loro come gli sbirri di Harvey Keitel lanciati in coda alla Thunderbird verde di Louise, inquadrati in immagini lucide e pastose, come si fosse sempre al tramonto: momenti di commedia pura, romanticismo, uno squarcio d’erotismo, il romanzo di formazione, l’indagine del poliziesco, il più classico dei road movie e, naturalmente, il western (ci torniamo). Inedito è il mix, e inedite sono Thelma/Geena Davis e Louise/Susan Sarandon, la chimica contagiosa che le accende, il loro aspetto (i personaggi hanno 37 anni, Davis ne aveva 35 e Sarandon 45, già oltre il limite di invisibilità di tanti casting hollywoodiani) e il loro rapporto di profonda amicizia. «Come Thelma e Louise» diventa un modo di dire qualcosa che esisteva già, ma che sullo schermo, grande come il cielo d’America, così azzurro e arancione, ancora non s’era visto. Con inevitabile coda di controversie (Thelma & Louise sarebbe “propaganda anti-maschi”; Khouri lo spiega bene: «Se un uomo si sente a disagio guardandolo, forse si sta identificando nel personaggio sbagliato»), ma generale successo di pubblico e critica, installazione istantanea nell’immaginario collettivo, sei nomination all’Oscar e una vittoria (script originale) l’anno successivo. Nell’edizione in cui trionfa Il silenzio degli innocenti e ben quattro donne vengono elette al senato Usa, dopo la storica deposizione di Anita Hill che in diretta tv mette all’ordine del giorno le molestie sul luogo di lavoro: il 1992 viene incoronato “l’anno delle donne” (manco fosse il 2017). «Qualcosa è scattato, dentro di me, ed è cambiato tutto», dice Thelma a Louise, a un certo punto, ma in inglese è crossed over, “passare un confine”. «Ottieni quello che ti meriti» è una frase che Louise ripete spesso, ma in inglese è settle, che vuol dire accontentarsi, ma anche stabilirsi, sistemarsi, e pure colonizzare, tirar su una città, come i pionieri e i padri pellegrini. Nella negoziazione infinita tra civilizzazione e wilderness, Thelma & Louise sfreccia, capelli al vento e polvere, dritto, come un’autostrada nel deserto, dentro la natura selvaggia. Sigilla l’angosciosa ricerca controculturale on the road (un’alternativa, vi prego, all’omologazione della vita borghese!) e la fiera rivendicazione femminista di un’identità oltre al ruolo (di moglie-madre-fidanzata). Sulla strada, Thelma e Louise lasciano tutto, un pezzo dopo l’altro, “dis-addomesticandosi”: i vestiti, il rossetto, i gioielli, l’orologio. Li barattano con cappelli da cowboy, fazzoletti da legare al collo, pistole e occhiali da sole. Su una linea retta e libera, verso una Frontiera che ancora non è sparita: sta lì, davanti, l’unica direzione possibile. ALICE CUCCHETTI
***
L'impensato del cinema
«Perché ti comporti così con donne che nemmeno conosci? E se qualcuno lo facesse con tua madre? O tua sorella? O tua moglie? Chiedi scusa». Il momento - nel suo (apparente) piccolo - aurorale e spartiacque in cui Thelma e Louise rimettono a posto il camionista che le importuna è una linea oltrepassata, una catena saltata, nella lunga strada percorsa dal femminismo nel cinema, nel suo immaginario più popolare, immediato e incidente sulla cultura di massa, sino ad allora povero di paladine riconosciute e fondative (come Rossella O’Hara, o l’altra donna scottiana Ripley). Per la teorica Carla Lonzi, la differenza sostanziale delle donne è la loro assenza dalla storia (anche cinematografica), per cui è necessario «approfittare di questa differenza»: Thelma e Louise lo fanno riconoscendola come tale, lottando per denunciarla, segnalando la necessità di emanciparsi da una condizione inosservata, sradicando un automatismo comune (le molestie verbali). Il loro esserci non può più essere un «impensato» (Luisa Muraro). Nel cinema l’evoluzione si attua prima di tutto sul piano del ruolo, da oggetto del desiderio (di conquista, di esposizione, comunque sempre subordinato) a soggetto proattivo, ed è significato quasi sempre rivestire le figure femminili di attributi maschili (le virago: le Sarah Connor, le Lara Croft, le Nikita), o lasciarle confinate in generi targettizzati e perciò limitanti, come il chick flick (con varie rivincite di bionde), o ancora lavorandovi all’interno di corpus autoriali (da Chantal Akerman a Margarethe von Trotta) lontani dai riflettori. Oggi che il cambiamento è richiesto a gran voce, e nell’industria culturale “femminismo” persiste come sinonimo di “prodotto” (i franchise delle eroine ribelli Hunger Games o Divergent e dei remake cambiati di segno, da Ghostbusters a Ocean’s 8), svolto come una rivincita superficiale del politicamente corretto, sono proprio alcuni blockbuster a dimostrare un introiettamento della differenza da un punto di vista qualitativo, quello delle peculiarità femminili non “testosteronizzate”: Mad Max: Fury Road, Star Wars, i manifesti di autodeterminazione disneyana (Ribelle - The Brave, Frozen, ma soprattutto Oceania, che punta sulla rivendicazione di un’identità prima che su un sottolineato rifiuto della love story come imprescindibile in un racconto “al femminile”). Un passo ulteriore lo compie l’esordiente Coralie Fargeat con Revenge, riscatto femminista su un genere - il rape and revenge - e su un sistema - quello fallocratico - che unisce l’appeal commerciale e seduttivo a un discorso sociologico (e cinefilo) finissimo. Per una nuova educazione dello sguardo. FIABA DI MARTINO
[pubblicato su Film Tv n° 06/2018]
|