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Questa è la prima newsletter/reportage della nuova stagione di Marat. E' una lettura relativamente lunga, quindi mettetevi comodi!

Frontiera è una parola che si sente spesso a Calais, un piccolo porto del nord della Francia che si affaccia sulla Manica dove sono stato per due giorni all’inizio di questa settimana.

La città è il punto cardine del transito di uomini e merci tra l’Europa continentale e il Regno Unito: il suo porto è uno dei più grandi della costa, ed è qui che inizia il tunnel della Manica che sbuca a Dover, in Inghilterra. Se avete mai attraversato lo stretto in automobile, in autobus o in traghetto conoscerete il rito del passaggio nell’ufficio passaporti per il controllo da parte degli agenti inglesi. Questo perché, in virtù del trattato del Touquet, le due nazioni effettuano controlli “giustapposti” alle rispettive frontiere: in Francia siete controllati da agenti britannici, nel Regno Unito da agenti francesi.

Se volete andare in Inghilterra, è quindi molto probabile che passiate da Calais: vale per gli europei, ma anche per i migranti che attraversano il Mediterraneo o i Balcani per arrivare in Europa occidentale. Qui incontrano il primo confine vero e proprio, l’ultimo ostacolo da superare. Ecco perché negli anni si sono formate più “giungle”, campi profughi improvvisati e illegali, intorno all’autostrada e all’Eurotunnel, l’ultima delle quali ha accolto, nelle fasi più affollate, circa diecimila migranti. Sgomberata nel 2016 con un’enorme operazione di polizia, a Calais non c’è più un punto preciso dove si raggruppano i migranti, sparpagliati per tutta la periferia della città.

Circa settecento persone si accampano sotto ai viadotti o intorno alle piazzole di sosta per sfruttare i momenti di distrazione dei conducenti dei tir e nascondersi tra la merce o addirittura al di sotto degli autocarri. E’ per questo che sono tutti uomini e abbastanza giovani: ho visitato le strutture di accoglienza e il più grande punto di distribuzione del cibo e dei vestiti, e ho incontrato soltanto una donna e nessun bambino.

François Guennoc, vicepresidente dell’Auberge des migrants, una delle associazioni umanitarie che operano a Calais, viene a prendermi alla stazione con la sua Renault grigia piena di coperte, vestiti e buste con cibo. Sulla sessantina, è pensionato e dedica gran parte della sua giornata al lavoro nell’associazione. Mi spiega subito che non potrebbe essere altrimenti, visto che “a parte la distribuzione d’acqua, i servizi igienici e le docce, è tutto in mano alle associazioni: il cibo (anche se durante la sua visita Macron ha promesso che sarà lo stato a occuparsene in futuro), il riscaldamento, le coperte, le tende, l’elettricità o il Wi-Fi”.

Già, il Wi-Fi, perché molti rifugiati comunicano in continuazione con le loro famiglie e cercano, nei limiti del possibile, di seguire l’attualità politica per capire l’evoluzione dell’atteggiamento dei governi sull’immigrazione. Se sei un migrante vuoi sapere subito quando un capo di stato come Angela Merkel decide di aprire le frontiere in maniera quasi incondizionata. François mi porta subito al centro “logistico” che la sua associazione condivide con altre cinque Ong, una francese e quattro britanniche. E’ qui che vengono raccolte le donazioni materiali, viene cucinato il cibo da distribuire e si riuniscono le associazioni per dividersi i compiti.

La mensa del centro logistico delle Ong

Dopo aver visitato il centro logistico François mi porta al principale punto di distribuzione del cibo, uno spiazzo tra dei capannoni industriali. Piove a dirotto, c’è un vento fortissimo e fa molto freddo, un centinaio di migranti si raccoglie intorno al fuoco improvvisato e attende il proprio turno per mangiare una zuppa calda portata dai volontari.

A un certo punto arrivano alcuni attivisti di un’associazione britannica che ha trasformato uno dei famosi autobus a due piani in una classe di inglese itinerante, attirando subito parte dei rifugiati.

Chiedo a uno di loro, Hussein, da dove viene. “Etiopia” mi risponde in inglese, raccontando che deve continuamente spostarsi a causa delle pattuglie della gendarmerie, che hanno ordine di evitare in ogni modo che si ricostituisca una giungla: requisiscono dunque le tende, le coperte e tutto quello che può servire ai migranti per “installarsi”. Emmanuel Macron ha spiegato che “non sarà tollerata l’occupazione abusiva di suolo pubblico, lo stato non permetterà l’installazione di una nuova giungla. I francesi si alzano ogni mattina e rispettano le regole, queste valgono anche per i rifugiati”. Le associazioni accusano la polizia di violenze nei confronti dei migranti e di distruggere il materiale che mettono a loro disposizione. Alcune hanno denunciato queste pratiche lo scorso lunedì alla procura di Boulogne.

Chiedo a Hussein dove dorme, mi fa segno di seguirlo insieme a due altre giornaliste delle radio francesi e una fotografa. Superiamo uno dei capannoni per arrivare in uno stretto corridoio dove sono montate cinque minuscole tende in mezzo al fango, completamente fradice: “Fa molto freddo di notte, la polizia quasi ci aggredisce. Non è una situazione umana”, dice Hussein.

Mi sono chiesto come mai queste persone non andassero nei centri di accoglienza dello stato, che non sono molti ma esistono.

Perché non chiedono asilo in Francia?

La risposta me l’ha data Vincent De Coninck, uno dei volontari del Secours Catholique che ha aperto un piccolo centro per dare riparo ai migranti durante il giorno: “Tutte le persone che passano da Calais hanno lasciato le impronte digitali altrove in Europa, sono quindi dei ‘dubliners’, persone che secondo il trattato di Dublino dovrebbero chiedere asilo nel primo paese di accoglienza. Ma vogliono andare nel Regno Unito, e quindi rifiutano di farsi portare nei centri amministrativi, perché questo comporterebbe il rinvio verso il primo paese di approdo, spesso l’Italia”.

Gli chiedo perché proprio il Regno Unito, dopotutto sono riusciti a lasciare il proprio paese, sono in Europa, l’obiettivo è raggiunto: “La maggior parte dei migranti che arriva a Calais non viene dall’Africa francofona, ma da paesi legati al Regno Unito come il Sudan, l’Afghanistan, o gli stati del Corno d’Africa. In molti vogliono raggiungere un membro della famiglia, e in ogni caso nel Regno Unito è più facile vivere senza documenti, di conseguenza lavorare in nero”, risponde.  

In una delle tante chiacchierate François mi spiega che i migranti rimasti a Calais sono i più poveri: “Chi ha un po’ di soldi non resta qui, paga i ‘passeur’ per andare a due, tre, quattrocento chilometri da qui, dove salire su un tir è molto più semplice perché i camionisti sono meno attenti”, ecco perché nonostante sia pericolosissimo e soltanto due settimane fa un migrante è morto travolto in autostrada, alcuni continuano a rimanere in città per tentare il passaggio. Non hanno alternative. “Ogni settimana una decina di persone riesce a superare i controlli, che non sono severissimi, può capitare di non subire alcuna perquisizione. I migranti lo sanno perché il passaparola è veloce. Il nostro governo può continuare a dire che la frontiera è chiusa, ma la realtà è un’altra: finché anche un solo migrante al giorno telefonerà dall’Inghilterra per comunicare che ce l’ha fatta, tutti gli altri ci proveranno”.

François Guennoc, a destra, in una delle tante interviste

Ciò che è frontiera per gli uomini potrebbe diventarlo presto anche per le merci. In Italia la Brexit sembra un problema molto tecnico, noioso, e in ogni caso lontano.

A Calais e nel nord della Francia non è così, la Brexit e i migranti si guardano in faccia e sono problemi concreti da risolvere. Francia e Inghilterra non negoziano direttamente la Brexit, dall’Eliseo continuano a ripetere diplomaticamente che “è Michel Barnier, il capo negoziatore dell’Unione europea, a guidare le trattative”, ma in realtà la Francia si sta occupando eccome del dossier.

Calais e la regione Hauts-de-France rappresentano circa la metà del trasporto tra Regno Unito ed Europa, una cifra di affari di 450 miliardi di euro. Ogni anno circa 4,5 milioni di tir transitano attraverso il porto di Calais, quello di Dunkerque o l’Eurotunnel. I migranti arrivano qui non per caso: è l’unica strada. Per preparare il mio piccolo viaggio al nord ho fatto una lunga chiacchierata con Jean-Paul Mulot, rappresentante permanente nel Regno Unito della regione Hauts-de-France, per avere dei chiarimenti su cosa vuol dire concretamente la Brexit per gli europei: “Da qui passano merci di tutta Europa, in particolare nei settori dell’automobile, della costruzione aeronautica e dei macchinari industriali. Moltissime aziende assemblano nel Regno Unito, ma i primi tre paesi fornitori di materiali sono Germania, Francia e Italia”.

Secondo Mulot “una hard Brexit sarebbe un disastro per la fluidità del commercio. Molte merci extracomunitarie arrivano nei porti europei, passano i controlli alle dogane e poi girano ‘libere’ nel continente”. Questo accade in particolare nei porti del Mediterraneo e del nord Europa, mi dice: “Circa l’8,5 per cento delle merci che arrivano a Rotterdam è destinato al Regno Unito, immaginate che cosa vuol dire rifare da zero i controlli una volta arrivati a Calais”. Un porto di controllo doganale ha bisogno di tecnologie, infrastrutture e personale: nuove dogane tra il Regno Unito e la Francia implicano costi elevati che, a quanto sembra, ognuno affronterà da solo, i francesi con l’aiuto degli altri 26 stati. Calais rischia di avere bisogno di moltissimo spazio per far posto alle nuove infrastrutture.

Tra un appuntamento e l’altro sono andato a trovare Jean-Marc Puissesseau, direttore generale della società che gestisce il porto di Calais-Boulogne, che mi ha accolto nel suo ufficio all’interno della struttura. L’indotto del porto è di circa diecimila posti di lavoro, mi dice, ed è assolutamente prioritario che lo stato francese se ne occupi. Sarà stato contento, immagino, dell’annuncio dato giovedì: il Regno Unito investirà circa 50 milioni di euro per migliorare le strutture di sicurezza del porto e per snellire il processo di controllo dei passaporti. Anche Puissesseau, come Mulot, mi spiega che la velocità è fondamentale: “Ogni giorno qui transitano circa tremila autocarri. Ognuno impiega circa un’ora per superare i controlli e imbarcarsi, e poi circa un’ora e un quarto per attraversare lo stretto. Capirete che se aggiungiamo soltanto venti minuti di controllo supplementare, moltiplicato per la quantità di mezzi che dobbiamo trattare, la perdita di capacità è catastrofica”.

Ma il confine non è soltanto a terra o nei porti. Il canale della Manica è un mare che francesi e inglesi condividono da sempre. Port-en-Bessin, Normandia, è un piccolo villaggio di pescatori vicino alle spiagge dello sbarco. Ha la tipica forma dei porti francesi sull’Atlantico: uno stretto canale spacca in due il centro, e un sistema di chiuse garantisce la presenza dell’acqua anche quando la marea si ritrae, lasciando “a secca” l’ingresso.

Port-en-Bessin


“Allora, chi vuole parlare con il giornalista che sta scrivendo un papier sulla Brexit?”, scherza Dimitri Rogoff, il presidente del comitato regionale della pesca, che mi introduce ai pescatori che stanno scaricando le coquilles de Saint-Jacques, le capesante tipiche della zona, la principale risorsa pescata a Port-en-Bessin.

Nel porto quasi tutte le conversazioni finiscono a un certo punto sulla Brexit, che mi sembra essere la preoccupazione principale. Dal secondo Dopoguerra le barche francesi si allontanano dai loro porti per pescare nella Manica, arrivando fino alle acque territoriali britanniche: “La Manica è un canale stretto, e il pesce non è un animale sedentario, per usare un eufemismo.

E’ naturale che le barche francesi sconfinino in Inghilterra e viceversa”, mi dice Dimitri. Circa la metà delle risorse proviene da acque territoriali britanniche, anche se è difficile fare una stima precisa, mi spiegano.

Le coquilles, che vengono vendute direttamente nel porto ai grossisti. Quello in fondo è Dimitri

Le attività dei pescherecci sono regolate dalla convenzione di Londra, firmata da dodici stati europei nel 1964 e dalla quale i britannici hanno deciso di ritirarsi. La convenzione autorizza la pesca sino a dodici miglia dalla costa degli altri stati contraenti, ma ad alcuni è consentito anche tra le dodici e le sei miglia, spesso le acque più ricche di risorse. Sono i “diritti storici” concessi ai pescatori che utilizzavano quelle rotte prima che il trattato venisse concluso, nel periodo tra il 1952 e il 1963.

Su quasi tutte le acque territoriali inglesi che si affacciano sulla Manica i pescatori normanni e bretoni possono vantare diritti storici, un privilegio che non è reciproco, dal momento che i pescatori inglesi dell’epoca non avevano le tecnologie né la necessità di arrivare in acque francesi, a causa del mercato interno molto meno rilevante.

A Port-en-Bessin sono due i pescherecci di più di 24 metri in grado di restare per giorni così lontani dal loro porto di appartenenza: “Questo tipo di barche non sono le più utilizzate in Francia, ma sono fondamentali nella filiera industriale: in otto giorni, il tempo di permanenza in mare, pescano tra le 15 e le 20 tonnellate di pesce che necessita lavorazione supplementare e genera quindi molto lavoro a terra”, mi spiega Raphaël Sauvé, vicedirettore dell’organizzazione dei produttori marini della Normandia.

I diritti storici degli altri paesi sulle acque territoriali britanniche. Come potete immaginare l'altro paese molto preoccupato è l'Irlanda

Fino alla notizia della Brexit, ma anche adesso, gli affari andavano benissimo, continua Dimitri, tanto che nella regione entreranno in funzione quattro nuovi pescherecci di alto cabotaggio.

Un investimento di circa 3 milioni di euro per ogni barca. I francesi hanno paura di perdere i loro diritti storici, richiesta avanzata dai pescatori della costa sud dell’Inghilterra, tra i più ferventi sostenitori della Brexit e che intendono vendere lo sfruttamento delle proprie acque territoriali senza dover sottostare alle quote imposte da Bruxelles. Come glielo spiega Theresa May, primo ministro britannico, che nonostante il referendum per il quale hanno votato in massa la gestione delle acque della Manica resta la stessa?

Per mettere fine alla guerra della pesca tra i vari stati membri, l’Unione europea ha fissato delle quote massime annuali che tutti devono rispettare. Questo ha permesso di preservare le risorse ittiche, altrimenti a rischio sovrasfruttamento.

Esistono però diverse culture, mi dice Dimitri, e la Brexit potrebbe cambiare l’approccio: “I pescatori sono abituati a pescare ‘finché ce n’è’. Negli ultimi anni siamo riusciti a far passare l’idea che non è così che si tutelano le risorse: oggi peschi tutto, e tra tre anni quando il pesce finisce che facciamo? Portiamo i libri in tribunale? In Francia è stato relativamente facile: la pesca è portata avanti da piccoli equipaggi secondo metodi artigianali, e le nostre quote vengono divise in maniera proporzionale tra tutte le zone e tutti i pescherecci. Possiamo scambiarle, ma non venderle. In Inghilterra è il contrario, la pesca è vissuta in maniera industriale, agiscono grandi gruppi, e le quote possono essere vendute”.

Se gli inglesi “chiudono” le loro acque e iniziano a vendere le loro quote al miglior offerente, continua Dimitri, si genererà un effetto a catena: non tutti intenderanno comprarle, perché dal punto di vista contrattuale partiremmo svantaggiati, e l’unica alternativa sarà andare a pescare nelle già affollatissime acque europee: “Se gli inglesi non ci consentono più di andare nelle zone di diritti storici questo vuol dire ripiegare nelle nostre acque territoriali. Se poi si arriva a una hard Brexit, e quindi il confine torna a metà della Manica, è una catastrofe per tutti. Non vale soltanto per noi, ma anche per gli olandesi, per i belgi, per i tedeschi e per i danesi. Le quote resterebbero le stesse, lo spazio per pescare no”.

I pescatori di Port-en-Bessin sono consapevoli che il loro dossier è uno dei tanti che dovrà essere trattato nei negoziati sulla Brexit, tuttavia sperano che, soprattutto da parte inglese, prevalga il buon senso. La verità è che lo speriamo tutti.

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Consigli di lettura e fonti
 
  • Maryline Baumart è una giornalista del Monde e una delle più esperte in tema di immigrazione. Potete seguirla su Twitter, vi consiglio questi due articoli che ho trovato molto utili: nel primo spiega cosa sappiamo del progetto di legge sull'immigrazione di Macron, nel secondo racconta la visita del presidente a Calais.
  • Le preoccupazioni dei francesi per la pesca d'altura, di France Soir.
  • Se volete saperne di più sulla Brexit, Gabriele Carrer scrive una newsletter sulla politica inglese e sulle trattative in corso. Potete iscrivervi qui.
  • La Francia è uno dei pochi paesi europei in cui il tasso di natalità è positivo, e non ha problemi dal punto di vista demografico. O meglio era, perché questo è il terzo anno consecutivo di diminuzione delle nascite. Il Figaro ha dedicato uno speciale al fenomeno e nei prossimi mesi, quando avrò raccolto un po' di materiale, ne parlerò in una puntata della newsletter.
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